Il dialetto e la sua scrittura

Non è compito facile affrontare il problema di come si debbano rendere i suoni caratteristici di ogni particolare lingua o dialetto, né ciò rientra tra gli obiettivi di questo sito o del libro biografico su Michele Pane. Eppure qualche cosa occorre dire su questo argomento, anche su sollecitazione di qualche amico visitatore del sito e appassionato della lingua che chiamiamo dialetto.

Il problema principale consiste su come rendere alcuni particolari suoni per i quali l’alfabeto latino utilizzato per l’italiano non ha lettere o segni adeguati.
Alcuni autori dialettali hanno risolto il problema con la sostituzione di vocali o consonanti con altre che sembravano rendere meglio il suono del dialetto; altri hanno introdotto segni convenzionali; altri ancora hanno raddoppiato le consonanti, e così via.
Il problema era già emerso nel secolo scorso e io ne parlo nella biografia di Michele Pane quando tratto del cambiamento stilistico che si nota tra la sua prima composizione – L’uominu russu – o Trilogia e Viole e ortiche. Proprio in quest’ultima opera, pubblicata nel 1906, Michele Pane riporta una nota scritta da Luigi Accattatis (1838-1916) che si sofferma su come si debba scrivere in dialetto. Ecco le parole di Accattatis:

E, prima di tutto, io debbo presentare al sig. Pane i miei elogi per la inappuntabile ortografia con la quale ha scritto i suoi versi; ortografia seguita correttamente dal bravo proto della “Cronaca” [Cronaca di Calabria]. Eʼ pregio codesto che in Italia, e specialmente in Calabria, pochissimi autori e stampatori vogliono avere, benchè nel “Trattatatello fonetico-grammaticale” premesso al citato Vocabolario [il suo Vocabolario del dialetto calabrese] io deplori lo sconcio secolare di una lessigrafia stupida, barocca, irragionevole e ponga in certo modo a posto le cose con un embrione di grammatica calabro-italiana. […] Sono vezzi lamentati e comuni alla maggior parte degli scrittori dialettali: quello di non usare opportunamente della interpunzione, degli apostrofi ed accenti per marcare le consonanti o le flessioni e le attenuazioni delle voci; le afèresi, le metatesi, le apocopi, le sincopi, le paragogi, i vocativi tronchi […] lʼaltro di voler rendere a puntino il suono delle parole, duplicando alla carlona le consonanti, per denotarne la forte impulsione: senza riflettere che la fonetica di ogni regione è il prodotto di conformazioni speciali (determinate dal lunghissimo ed abituale uso del linguaggio, trasmesso di generazione in generazione) delle cavità, delle ossa e dei canali dellʼorgano vocale di ciascun popolo […]
Il delirio di alcuni bravi scrittori calabresi è arrivato fino al punto di scrivere huocu, hidile, hocara, ecc. per rendere il suono aspirato che la labio dentale f  ha in Panettieri ed in altri paesi del cosentino, senza nè meno avvertire i lettori che quella h iniziale sta in sostituzione della lettera f, onde è a leggersi fuocu, fidile, fòcara. […]  So che il Pane vagheggia il pensiero di raccogliere e pubblicare in volume, col simpatico titolo di “Viole ed Ortiche” le sue produzioni letterarie. Le limi “con mano diurna e notturna”, prima di licenziarle al pubblico, che […] è assai severo e schifiltoso, segnatamente di fronte ai sorrisi delle nove muse. Lʼegregio giovine trova esempi di virilità e di serietà di studi nella propria stirpe, e non gli dispiacerà la franca e rincorante parola di un vecchio amico ed ammiratore di suo zio [Francesco Fiorentino]
.

Accattatis sostiene che si possono, anzi si devono, usare accenti e apostrofi ma le consonanti devono restare non modificate. Sarà la conoscenza del dialetto che farà emettere al lettore il giusto suono associato ad ogni consonante e vocale, non essendo delegabile a qualche segno la possibilità di “domare” le ribelli conformazioni dell’organo vocale, come le chiama lo studioso sciglianese. E infatti, a ben pensarci, perchè ad un lettore di origini siciliane risulta impossibile, qualunque segno si utilizzi, pronunciare correttamente la “r” ad inizio parola, senza cioè raddoppiarla? Oppure, per restare nell’ambito del territorio del Reventino, perchè un abitante di Carlopoli ha una particolare pronuncia della “l” quando dice “lire” o parole simili e solo con grande esercizio riesce a liberarsene? Lo stesso abitante ha un caratteristico modo di pronunciare la doppia “r” all’interno di una parola che è riscontrabile solo a Scigliano e a San Giovanni in Fiore (che quest’ultimo esempio abbia a che fare con gli spostamenti dell’abate Gioacchino?).
E quindi, se un poeta di questo paese volesse scrivere una poesia contenente una parola con la doppia “r”, ad esempio “carru”, per sentire il suono che egli si aspetta non dovrebbe dotare detta parola di alcun segno speciale perchè verrebbe reso esattamente come se lo aspetta, se a leggerlo però fosse una persona di lingua madre carlopolese.
Il problema vero nasce quando a leggerlo è una persona di un’altra madre lingua. Ma quale segno si potrebbe mai introdurre per rendere possibile ad una persona che non ha mai ascoltato dalla viva voce di un altro la corretta dizione di queste consonanti?
Ben diverso è il discorso se si parla dell’utilizzo di simboli fonetici speciali per rendere possibile la registrazione su carta della pronuncia di una parola in una determinata lingua, per fini di studio.

Per fare un altro esempio, possiamo chiederci come debba essere scritto il nome del paese “Conflenti” di cui è difficile rendere il suono del gruppocentrale “nfle”. Michele Pane risolve utilizzando la doppia j come nella poesia dedicata a una ragazza di Conflenti intitolata Cujjentara (Musa Silvestre, 1930). E’ una soluzione che estende anche ad altre parole che contengono lo stesso suono come ùjju! (Tàrra-ùjju!, in Peccati del 1917) e quindi è chiara la sua scelta. La stessa lettera j Michele Pane adopera per rendere la doppia g di “maggio” che diventa Maju. Il metodo funziona perchè oramai ci siamo abituati ad attribuire a questa j il suono corrispondente a quello che sappiamo essere quello giusto ma guai a pensare che a parità di lettera j si possa risalire alla consonante che ha sostituito poichè, come abbiamo visto, può provenire sia da un gruppo contenente la f sia una lettera g. Per la lettera f abbiamo esempi in

  • jure
  • jatu
  • jumara

per la lettera g:

  • praja
  • haju
  • jettave
  • maju
  • judice
  • jurnu
  • jardinera
  • fulijnusa
  • frijadi

Poi ci sono anche esempi in cui la j, se vista come lettera della lingua scritta, sembra sostituire consonanti di tutt’altro tipo come jocca (che verrebbe da “chioccia”), jazzava, janca. Per il resto Michele Pane non usa altre lettere nelle sue poesie, seguendo quanto dice Accattatis, per cui scrive focularu, fòcara e così via. Una sola volta ho trovato un carattere anomalo e ciè in Cuntrattu (a pag. 15 in Peccati, 1917) dove, al sesto rigo, scrive Yetta, cioè “getta“, che dev’essere sicuramente un errore del tipografo sfuggito alla correzione delle bozze. Un’altra particolarità che può essere interessante segnalare è la parola Vijla che viene scritta in questo modo da Michele Pane quando la pubblica in Accuordi. Sfroffe ‘ncalavrise nel 1911 mentre Gabriele Rocca, quando la include in Musa Silvestre del 1930 la scrive Vijila e non si tratta di un refuso perchè è scritta così anche nell’indice e nel glossario. Evidentemente Rocca ha voluto sottolineare la lunghezza maggiore del suono facendo assumere alla j il valore consonantico da cui d’altra parte trae origine.

La scelta compiuta da Michele Pane è la migliore possibile: introduce il solo simbolo j esterno all’alfabeto italiano e per il resto si affida alla conoscenza che ogni lettore deve avere su come si pronunciano le parole. Non si può caricare il verso scritto di una poesia di segni e simboli con il compito di suggerire a chi non conosce la lingua quali siano i fonemi associati. Utile in studi scientifici ma scrivere o leggere una poesia è tutt’altra cosa! Per molte persone la poesia ha già in sè il valore estetico e sonoro quando è ancora solo scritta, quando i suoni evocati si producono direttamente nel cervello suscitando le stesse, o forse ancora maggiori, emozioni che se ascoltate. E quindi anche il segno grafico deve essere snello, semplice, senza eccessi, come diceva già cento anni fa Luigi Accattatis.

Giuseppe Musolino

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