‘A fòcara
Scritto on 19 Dic, 2011 in 'A fòcara | 1 commento
‘A focara è una delle poesie più famose di Michele Pane, pubblicata per la prima volta in Viole e ortiche nel 1906.
Ma quanti sanno esattamente che cos’è la fòcara?
Innanzitutto, ricordiamo che la parola si pronuncia con la f iniziale aspirata come la “c” toscana di casa o la h inglese di home. Questa particolare pronuncia, oggetto nel passato di molte discussioni su come si debba tradurre nella scrittura, ha spesso portato al grave errore di inserire una h dopo la f (fhocara) o addirittura di usare la lettera h al posto della f.
Questi modi errati di scrivere erano stati già trattati dal prof. Luigi Accattatis nella prefazione al suo famoso Vocabolario del dialetto calabrese e ribaditi nell’appendice a Viole e ortiche (1906) in cui Michele Pane pubblica una nota dell’Accattatis sulla sua poesia. Le parole di Accattatis sono esplicite: «Il delirio di alcuni bravi scrittori calabresi è arrivato fino al punto di scrivere huocu, hidile, hocara, ecc. per rendere il suono aspirato che la labio dentale f ha in Panettieri ed in altri paesi del cosentino, senza nè meno avvertire i lettori che quella h iniziale sta in sostituzione della lettera f, onde è a leggersi fuocu, fidile, fòcara.» (vedi G. Musolino, Michele Pane. La vita, pp. 77-78).
Per quanto riguarda l’etimologia di fòcara, ovviamente all’origine c’è il latino focus, da cui focàra che è una specie di braciere. Il nostro fòcara è usato solo in Puglia, precisamente nel Salento, con lo stesso significato di grande fuoco acceso all’aperto, e in Sicilia. Come curiosità ricordo che focora, col significato di plurale di “fuochi”, è una delle prime parole che compaiono nella lingua scritta cosiddetta del volgare italiano, poichè la usa Cielo d’Alcamo nel Contrasto:
«Rosa fresca aulentissima, ch’appari inverso state,
le donne ti disirano, pulzell’e maritate!
Traimi de ’ste focora, se t’este a bolontate,
perché non aio abento notte e dia
penzanno pur di voi, madonna mia».
Questo stesso secondo verso di Contrasto che contiene la parola focora, è citato da Dante Alighieri nel De Vulgari Eloquentia (I, XII) (riportato nella forma «Tragemi d’este focora se t’este a boluntate») come esempio del pessimo giudizio che aveva della parlata siciliana per la lentezza del ritmo.
Ma torniamo alla fòcara. Si tratta di un grande falò che si accende la sera della vigilia di Natale e che poi viene mantenuto in vita e ravvivato la notte dell’ultimo dell’anno e dell’Epifania. Un grande fuoco all’aperto, quindi, come lo si ritrova nelle tradizioni popolari di molti paesi europei in corrispondenza del giorno più corto dell’anno ma anche in altri periodi.
L’origine della tradizione è certamente pagana, come tanti altri riti e tradizioni che le religioni hanno assorbito e rielaborato, ma qui quello che più interessa è l’aspetto antropologico della fòcara, cioé come è stato rielaborato e vissuto nelle comunità calabresi in generale e in particolare in Decollatura.
La materia prima consisteva principalmente in ceppi di castagno, quasi sempre la parte che rimaneva nel terreno dopo aver tagliato un albero. Si tratta di un intrico di radici in cui rimane molta terra e il colletto del tronco appena accennato. Non si può parlare di materiale di scarto poiché, nei tempi antichi, anche l’apparato radicale degli alberi veniva utilizzato come legna da fuoco, dopo aver scavato il terreno tutto intorno al punto di taglio, che sfiorava il terreno, e, a volte, anche al di sotto. Nessuno si poteva permettere il lusso di lasciare marcire nel terreno qualche quintale di legno in tempi in cui l’unica fonte di combustibile era il legno secco che cadeva dagli alberi dopo un temporale, diritto riconosciuto agli abitanti dei paesi montani sui terreni dei feudatari con il nome legnare a morto, ossia diritto alla raccolta dei rami secchi spontaneamente caduti dagli alberi. C’era poco altro da bruciare: le frasche (fascine di rami secchi), le poche reperibili, servivano per ardere il forno; le stoppie dei lupini occorrevano per le riparazioni annuali del pagliaio; dei tronchi degli alberi, non è neanche il caso di parlarne: chi avrebbe mai tagliato un albero, privandosi di una fonte di cibo? Oltretutto – e ciò sembra inverosimile – il paesaggio dei tempi passati era molto più spoglio di quello di oggi! Nei terreni coltivabili non erano tollerati alberi che, facendo ombra, avrebbero ridotto la produzione del campo e quindi non se ne piantavano, o meglio, c’erano pochi, alti, immensi alberi di pirajina o di melo, tanto alti che la loro ombra si distribuiva su una grande area e quindi dava poco disturbo al raccolto. Non c’erano luoghi incolti in cui potevano essere trovati arbusti o altro materiale vegetale. Gli alberi, i pochi tollerati lungo gli argini dei fiumi o nel bosco, erano potati fino ad altezze inverosimili durante l’estate per dare da mangiare alle capre. Restavano quindi le radici degli alberi abbattuti dalle intemperie, quelli trasportati dalla corrente dei fiumi, quelli i cui proprietari non avevano vigilato abbastanza…
I ceppi, chiamati zucchi in dialetto decollaturese, dovevano dunque essere raccolti lontano, nei boschi o vicino ai fiumi, e trasportati su un rudimentale carro fino alla piazza della frazione di appartenenza dei volontari. Il lavoro necessario per togliere il ceppo con tutte le radici dalla terra e per portarlo a destinazione avrebbe scoraggiato chiunque. Ed è proprio in questo aspetto che, tentando un’analisi antropologica della fòcara, si possono trovare gli elementi per dare un’interpretazione plausibile sulla sua origine e significato. Il punto di partenza è che le radici e la parte di tronco rimasti sottoterra impediscono la lavorazione e la semina del terreno e inoltre, particolarmente nel caso del castagno, non marciscono che dopo moltissimi anni. La cooperazione di tante persone nell’improbo lavoro di estrazione ed eliminazione delle ceppaie di castagno è da considerarsi un’opera positiva poichè una volta l’anno i boschi, e comunque i terreni in genere, venivano ripuliti da queste ingombranti e moleste presenze. Se poi vogliamo andare ancora più indietro nel tempo, fino al medioevo e poi ancora prima, dobbiamo ricordare una delle tecniche primitive di coltivazione: la cosiddetta cesina.
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